Visual Artis

Segni di vita
L’opera fa parte della serie Segni di vita e prende forma dal desiderio di dare voce all’invisibile, a quei frammenti di natura che ci sfiorano silenziosamente, segni delicati della vita. Tra questi, la conchiglia, scelta come simbolo, è architettura di protezione e rinascita, forma primordiale e poetica, custode del tempo. Emergendo dal buio, attraversata da una luce che la rivela, diventa segno vitale. Non oggetto, ma soglia — la conchiglia è ponte tra il mondo sommerso e la superficie visibile. Nell’opera affiora dall’oscurità, come richiamata da una luce sacra, rivelando la propria esistenza in un bagliore che non è solo visivo, ma interiore. La luce diventa così gesto di consapevolezza, atto di riconoscimento, invito a fermarsi e vedere. La luce non illumina solo la materia, ma risveglia lo sguardo, invitandoci a riconoscere ciò che spesso ignoriamo. Nel suo fragile equilibrio, la conchiglia ci parla di ecosistemi nascosti, di connessioni profonde, di presenza. Nel contrasto tra la fragilità della forma e la densità dello spazio che la circonda, si apre una riflessione sulla nostra relazione con l’invisibile quotidiano, con le piccole vite che sfioriamo senza accorgerci. In quella fragile architettura si riflette l’idea di un cosmo interconnesso, in cui ogni esistenza ha una sua poesia. L’opera non è solo celebrazione della bellezza naturale, ma anche atto di responsabilità: riconoscere il valore di ciò che vive silenziosamente accanto a noi. Essa ci ricorda che la cura nasce dallo sguardo attento, e che ogni luce che si posa su ciò che ignoriamo è un passo verso una coscienza più profonda del nostro essere nel mondo.

Sottrazione della bellezza
L’ opera nasce dall’esigenza di comunicare il cambiamento e la perdita sempre più evidenti della natura che ci circonda. Ho scelto la montagna, fragile e maestosa, il paesaggio della Val Ferret colpito dalla frana nell’estate del 2022 come simbolo di un cambiamento sempre più drammatico. La transitorietà è insita nella natura; i fattori naturali che trasformano e modificano il paesaggio sono caratterizzati da forze endogene ed esogene, ma le attività umane che da sempre lo modificano hanno causato nel corso dei secoli gravi danni, alterando e distruggendo molti ambienti naturali. La distruzione è in atto e la bellezza che ci circonda è in grave pericolo. L’ opera è caratterizzata dalla sequenza di tre immagini: contrasto tra bellezza e oscurità, reale e non reale, presente e non ancora futuro; presenza e sottrazione. La sequenza è un invito a riflettere sulla distruzione in atto e sull’urgenza del cambiamento come azione necessaria e ancora possibile.

Things are not as they appear
Things are not as they appear, è un progetto aperto, caratterizzato da immagini scattate dal 2015 ad oggi. Il lavoro nasce dalla necessità di dare luce alla relazione tra la dimensione del visibile e del non visibile. Ogni elemento della realtà, naturale o artificiale, è composto da altri elementi ed è soggetto ad una continua trasformazione, che ci conduce in più dimensioni, insite nella realtà che ci circonda. L’ impermanenza ci mostra la stratificazione e la complessità di ciò che siamo e ciò che è intorno a noi. È un invito ad immaginare, andare oltre a ciò che è visibile, lasciando spazio al dubbio e alla domanda. Ogni immagine vive singolarmente ed è al tempo stesso in relazione con le altre in una dimensione sistemica. Tutto è connesso e ogni immagine svela una propria dimensione verso una lettura più profonda della realtà che non è così come appare. Il progetto prende inizialmente forma come libro d’artista, per poi evolversi in una mostra personale — curata da Luca Panaro — realizzata in seguito alla vittoria del Premio Speciale SAC Spazio Arte Contemporanea. Pur appartenendo a Things are not as they appear, quest’opera, come sottolinea il testo critico di Luca Panaro, presenta una natura distinta rispetto alle altre: “C’è soltanto un’immagine che si discosta dalle altre, nel libro è nascosta, si manifesta soltanto aprendo la sovracopertina. In mostra si distingue in quanto è l’unica incorniciata. La sua particolarità consiste nell’essere realizzata sovrapponendo due fotografie, lontana quindi dalla realtà, forse l’inizio di una nuova ricerca, dove il naturale e l’artificiale possano convivere.”

Impermanence
Ogni cosa esistente è impermanente e testimonia una continua trasformazione del mondo. L’ impermanenza costituisce la natura delle cose e le immagini hanno il potere di far riemergere l’osservatore in qualcosa che non esiste più, attivando una sensazione fisica e mentale legata all’essenza delle cose e alla loro superficie. Una porzione precisa di esperienza fissata con uno sguardo analitico, un momento scelto e quasi catalogato in base alla temperatura emotiva che vive in ogni immagine. Nel percepire l’essenza della cosa stessa, cerco di entrare fotograficamente nella sua dimensione concreta per sentire e fermare ciò che non rimane.

Archeologia dell’assenza
Archeologia dell’assenza è un’indagine sulla traccia, sul modo in cui l’oggetto — quando non è più abitato — si trasforma in reperto: un frammento concreto che parla di ciò che è stato. Non più semplice elemento del quotidiano, ma testimone silenzioso di un passaggio, segno leggibile di una presenza ormai assente. In questo silenzio, l’oggetto si trasforma in reperto, documento fragile di un passaggio. Non parla direttamente, ma lascia intuire. È qui che l’immagine si fa soglia tra ciò che è stato e ciò che ancora persiste. Il progetto si fonda sull’idea che l’archeologia non riguardi soltanto il passato remoto, ma possa essere materia viva anche nel presente: un gesto visivo e concettuale che porta alla luce ciò che è invisibile ma ancora percepibile. Ogni oggetto è portatore di memoria, ogni forma residua racconta — con discrezione — la storia di un’azione compiuta, di una vita che ha attraversato quel tempo e quello spazio. L’assenza, qui, non è un vuoto da colmare, ma una presenza traslata, visibile solo attraverso ciò che resta. L’immagine non mostra direttamente, ma lascia affiorare. Il passaggio umano si manifesta nei dettagli, nelle relazioni tra le cose, nel modo in cui l’oggetto si fa testimone archeologico dell’invisibile. L’archeologia dell’assenza non cerca di ricostruire, ma di ascoltare: interpreta, stratifica, legge ciò che il tempo ha lasciato. L’opera invita a sostare in questa soglia sottile, dove l’immagine si fa memoria incarnata, ponte tra ciò che è stato e ciò che continua a vibrare, anche senza corpo.

Mo.Sa Landscape
Immagine realizzata per il catalogo Abecedario d’artista
Abecedario d’artista, Palazzo del Governatore, Parma Italian capital of culture, Parma, 2021.

Extimità
In ogni realtà c’è una frontiera che segna il rapporto conflittuale tra interno ed esterno. Il dentro e fuori si accostano, si ignorano apparentemente, il loro contatto è al tempo stesso una separazione. “C’è così l’interno del corpo e l’esterno del mondo”; la frontiera cade quando la relazione sfocia in dialogo e si delinea come unico corpo. L’extimità è il rapporto del soggetto con la propria struttura, il tentativo e volontà di dialogo tra mondo interno ed esterno, un’ apertura e abbattimento della frontiera per una conoscenza più profonda del sé: la dialettizzazione dell’intimità come essenza interna e di relazione con l’altro

Sguardo inverso
Il progetto Sguardo inverso, realizzato nella Gipsoteca Giuseppe Graziosi, fa parte della mostra collettiva Corrispondenze presso il Palazzo dei Musei di Modena. È il risultato di una collaborazione tra Fondazione Fotografia Modena e i Musei Civici di Modena. La mostra è il risultato di un progetto di ricerca artistica, curato dall’artista Mario Cresci e caratterizzato dalla reinterpretazione delle collezioni d’arte dei Musei Civici di Modena.